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In scena al Bellini di Catania, il perfetto dramma borghese.

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I festeggiamenti per il bicentenario dalla nascita di Giuseppe Verdi, stanno regalando numerose occasioni per scoprire e valorizzare quelle opere, considerate spesso a torto minori, che solitamente non trovano spazio nei cartelloni dei teatri d’opera.

È il caso, encomiabile, del Teatro Massimo Bellini di Catania che ha deciso di celebrare il Maestro di Busseto, allestendo, per la prima volta nella sua storia, un’opera tra le più interessanti, anche se poco familiare al pubblico italiano.

Parliamo di Stiffelio, dramma in tre atti su libretto del fido Francesco Maria Piave e basato sul dramma francese in quattro atti «Le Pasteur, ou l’Évangile et le Foyer» (Il Pastore o Il Vangelo e il focolare) di Souvestre e Bourgeois, rappresentato per la prima volta nel 1849, ma più fortunato aldiquà delle Alpi, grazie alla traduzione dell’attore Gaetano Vestri.

Composto «a passi giganteschi» nell’estate del 1850, Stiffelio è la prima (e l’unica) opera che non venne commissionata da un teatro, bensì dall’editore Giulio Ricordi, il quale pensò così di sfruttare a pieno le nuove possibilità offerte dalla recente legge sul diritto d’autore, investendo su questo progetto, rivelatosi poi sfortunato.

Il debutto fu destinato, per volere dello stesso Ricordi, alla strategica, seppur periferica, Trieste ed al suo Teatro Grande, in cerca di rilancio.

ImmagineIl 16 Novembre 1850, il pubblico accolse l’opera con un discreto successo che premiò più il patriota Verdi che l’opera in sé. Quest’ultima, a causa della cattolica censura asburgica, aveva infatti subito pesanti manomissioni e modifiche al libretto ed alla messa in scena, tra cui lo stravolgimento dell’intera scena finale.

La mannaia censoria si abbatté con crescente ferocia per i due anni successivi: nel 1851, a Firenze, si arrivò persino a cambiarne nome (Guglielmo Wellingrode), trama e libretto, senza l’approvazione di Verdi. La ripresa veneziana del 1852 regalò per poco l’illusione che Stiffelio potesse camminare con le proprie gambe, ma ben presto Verdi capì che ovunque approdasse, quest’opera era destinata ad essere costantemente stravolta.

Decise di ritirarla egli stesso dalle scene, diffidando lo stesso Ricordi a proseguire nella vendita e diffusione dello spartito, e di far confluire alcune sezioni dell’opera, insieme a parte del soggetto, nel successivo Aroldo del 1857.

Le ultime rappresentazioni di Stiffelio sono attestate nel 1862 a Malaga. Per quello stesso anno si registra un allestimento del nuovo Aroldo, proprio a Catania.

Da allora e fino al 1968, anno della prima rappresentazione moderna allestita dal Teatro Regio di Parma, Stiffelio ha vissuto, accanto ad un lungo oblio dalle scene, una crescente curiosità attorno a questo misterioso lavoro di cui non si riusciva a trovare neppure il manoscritto.

Sul finire degli anni sessanta del novecento, una fortunata ricerca dell’Istituto di studi verdiani, riuscì a scovare, in quella miniera rappresentata dalla biblioteca del conservatorio napoletano di San Pietro a Majella, ben due apografi (manoscritti ricavati dall’originale) in partitura completa, sia quello di Stiffelio che quello «apocrifo» di Guglielmo Wellingrode.

A cosa fu dovuta tanta severità censoria verso lo Stiffelio, un livore perfino superiore a quello che pochi mesi più tardi avrebbe coinvolto Rigoletto?

La risposta risiede nello stesso soggetto dell’opera: nell’Italia del 1850, ancora divisa politicamente, il cattolicesimo rappresentava uno dei più fermi tratti identitari dell’italianità in divenire. Come avrebbe mai potuto tollerare, un qualsiasi censore di un qualsiasi staterello italiano, che si portasse sulla scena la vicenda di un pastore protestante, l’«assasveriano» Stiffelio, per giunta sposato e addirittura cornificato dalla moglie? Un inconcepibile ed inaccettabile miscuglio di sesso e religione, aggravato dalla capacità di questo pastore luterano di concedere, dopo aver chiesto addirittura il divorzio (!), un cristianissimo perdono, basandosi nientemeno che sulla lettura del passo vangelico dell’adultera pentita e del celeberrimo «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra».

Ciò che agli occhi degli abietti gendarmi della morale appariva come osceno e blasfemo, rappresentava invece, a quelli di Verdi e di Piave, cui spetta il merito di aver proposto il soggetto, un’occasione irrinunciabile per imbastire un dramma del tutto diverso rispetto a quelli cavallereschi ed epici che avevano caratterizzato gli anni precedenti: «Sono un po’ stanco di questi Crociati», ebbe a confessare un Verdi insofferente allo stesso Piave, quando si trovò a dover accettare che l’Aroldo nato dalle macerie di Stiffelio fosse alfine proprio un crociato scozzese del 1200, con incredibile, per certi aspetti inspiegabile, rinuncia alle prodigiose intuizioni drammatiche di pochi anni prima.

Perché se è vero che Stiffelio patisce una fama secondaria rispetto ai grandi capolavori dalla trilogia popolare che lo seguiranno (Rigoletto, Traviata, Trovatore), è pur vero che niente si può comprendere a pieno della costruzione di questi tre capisaldi, senza aver chiaro il ruolo di formidabile laboratorio creativo rappresentato da quest’opera.

Stiffelio è un poderoso e coraggioso, anche se a tratti inconsapevole, salto in avanti nella lunga ascesa verdiana: dal punto di vista drammaturgico e musicale.

Rappresenta il punto di svolta nel passaggio ad una concezione moderna della sua musica (libera finalmente dal vincolo dei «numeri chiusi» e proiettata verso una costruzione a scene) e «borghese» del suo teatro: «non più clamor di battaglie e vicende di regni e d’imperi, ma una storia comune, di quelle che succedono all’uomo della strada», per usare le sagge parole di Massimo Mila. O ancora un «dramma urbano» secondo l’intelligente formula coniata allora dal corrispondente del Corriere Italiano di Vienna, dopo la prima triestina.

Stiffelio drammaturgicamente preannuncia Traviata con la sua ambientazione contemporanea, ma precede immediatamente Rigoletto, per quanto concerne il lavoro sulle forme musicali e l’introspezione psicologica dei personaggi.

D’altronde è la stessa dimensione borghese che aiuta Verdi a trovare dei percorsi melodici più raffinati: agli «effetti» (ed «effettacci») della prima maniera, nel vocabolario verdiano trova spazio ora il nuovo concetto di «accento», primo mattone nella costruzione di quella «parola scenica» che caratterizzerà tutta la poetica verdiana successiva.

Basterebbero queste piccole considerazioni per rivalutare Stiffelio agli occhi del grande pubblico, più che a quelli della critica ormai quasi unanimemente schierata a favore di un rilancio di quest’opera.

Rispetto al provincialismo di certe «grandi» fondazioni liriche italiane, incapaci di operazioni culturali degne di questo nome, va esaltato l’impegno di un teatro come il Bellini di Catania nel proporre un titolo, seppur verdiano, comunque meno popolare.

E del resto, Stiffelio è opera che, a fronte di un piccolo investimento in termini di allestimento, regala grandi e piacevoli sorprese anche al primo impatto.

Questo nuovo allestimento catanese, curato da Ezio Donato, si configura per la sua sobria eleganza (sia sotto l’aspetto registico che sotto quello musicale) e per la scelta di un cast appropriato e soddisfacente, rispondente in pieno alle stesse richieste di Verdi, che esigeva adesso non solo bravi cantanti, ma bravi attori!

Lo Stiffelio del tenore milanese Roberto Iuliano, è dotato di quell’insolito timbro roboante e scuro, quasi baritonale, utile ad affrontare i numerosi declamati che segnano i momenti di maggior furore del protagonista.

Per contrasto, la Lina di Dimitra Theodossiou, già più volte nei panni di questa moglie fedifraga e pentita, con il suo personale tocco da affermata belcantista, regala pagine di assoluto lirismo nelle arie che la vedono protagonista nel primo atto («A te ascenda, o Dio clemente») e nel secondo («Ah, dagli scanni eterei»).

Ma è Stankar (interpretato dal formidabile Giuseppe Altomare), il generale padre di Lina e strenuo difensore dell’onore violato dalla sua «indegna figlia», zelante come Rigoletto, risoluto come Giorgio Germont, il personaggio più poliedrico dell’opera: volgendo dal paternalismo sentimentale del dialogo padre-figlia (anticipatore di quello tra Violetta e Germont) alla grottesca scena che apre il terzo atto, allorquando la volontà suicida, si trasforma, con tanto di euforica cabaletta («Ah, gioia inesprimibile») in volontà omicida contro Raffaele, il seduttore della figlia Lina.

Come si diceva, con Stiffelio Verdi comincia ad emanciparsi quasi del tutto dal vetusto schema a «numeri chiusi» per approdare verso una costruzione a scene, in cui le arie ormai dialogizzate vengono diluite e contaminate.

Liberato dai vecchi formalismi compositivi, Verdi trasforma e ammoderna anche la forma del concertato di cui Stiffelio abbonda. Le linee armoniche di ciascun personaggio che si fondono tra di esse, o si allontanano in mirabolante polifonia, sono il mezzo con cui il drammaturgo Verdi può far interagire le singole individualità. Il coro dei fedeli assasveriani, rispetto ai drammi personali dei protagonisti, non può che stare un passo indietro (addirittura, in questo allestimento, è fisicamente separato da un velo che lo separa dal proscenio riservato ai solisti).

Proprio i portentosi concertati, come quello che termina l’opera, strappano gli applausi più convinti, per la forza dirompente che trasmettono.

Merito anche di una lettura estremamente elegante e raffinata, com’è stata quella del direttore Antonino Manuli, e dell’orchestra del Bellini, in forma smagliante, capace di affrontare con agilità anche i punti più perigliosi, come il secondo concertato del primo atto.

Resta da ribadire un’ultima, importante, considerazione: più di altre, Stiffelio meriterebbe un autentico riscatto rispetto all’oblio cui lo condannò la stupidità della censura e che ha impedito a quest’opera di rientrare nel canone dei capolavori verdiani. Ha fatto bene Catania, dopo oltre quarant’anni dalla sua riscoperta, a portarlo sulle scene, sfruttando l’onda delle celebrazioni per il bicentenario. Sarebbe bene, però, che questo non rimanesse, per il nostro Paese, un caso pressoché isolato.

 

Gianfranco Scavuzzo

(Linkiesta.it, 01 Novembre 2013)