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Immagine tratta dal volume “Dormire, forse sognare” di Ferdinando Scianna.
© 2013 Magnum Photos

Al Teatro Massimo, La  nuova versione dell’opera di Andò e Betta ispirata al ciclo di fotografie sul sonno di Ferdinando Scianna

«Perché il dormire, mi hanno domandato, mi domandano? Io non penso che un fotografo debba per forza dare, ammesso che ne abbia, spiegazioni su quello che fa, benché, diciamo che, negli anni, me ne sono date su questa mia piccola ossessione: ma magari non sono quelle giuste, né vere. Mi appassiona, come fotografo che pratica, per parafrasare Paul Valéry, una fotografia dell’istante che genera la forma e della forma che rivela l’istante, e chi sa, forse persino i suoi significati, l’affrontare in termini di istantanea questa variazione quasi immobile, ma che non è certo una interruzione, del flusso della vita. L’incrociarsi del tempo che vive il fotografo con il tempo, uguale e diverso, di chi sta dormendo. Mi interessa ritrovare nelle mie fotografie un fatto così naturale, così quotidiano, così universale e che pure è rimosso, al quale ci si abbandona quasi di nascosto, di solito in luoghi protetti, perché sappiamo che ci consegna inermi altrui».

Con queste parole, Ferdinando Scianna rispondeva a chi gli chiedeva da dove fosse sorta questa sua vera e propria “ossessione” di voler catturare in uno scatto l’atto più intimo ed al contempo più comune, com’è quello di una persona dormiente. Lo stesso fotografo ha più volte confessato di aver preso coscienza di questa sua piccola attrazione, soltanto a molti anni di distanza dai primi scatti, quando si è reso conto di aver collezionato un numero considerevole di ritratti di dormienti.

Ne nacque, era il 2000, una mostra di grande successo ed un volume dal titolo «Dormire, forse sognare».

Nel 2006, il regista palermitano Roberto Andò ed il compositore Marco Betta, ispirati proprio da questo ciclo di fotografie, portarono in scena, al Bellini di Catania, l’opera per musica e film, «Sette storie per lasciare il mondo».

Una versione, si potrebbe dire, postmoderna e mediterranea del grand opéra francese, che unisce la tradizione colta della musica sinfonica e del canto lirico a quella popolare delle compagnie di canto siciliane, fondendosi con i linguaggi cinematografici, familiari ad un regista come Andò così versatile e duttile, ed alla stessa fotografia di Scianna.

In questi giorni, al Teatro Massimo di Palermo, sta andando in scena una rinnovata versione dell’opera e grande è la curiosità che sta montando, soprattutto tra i giovani, attorno a questa nuova modalità di intendere il teatro musicale.

Questo progetto – racconta Andò – è «partito molto tempo fa su impulso di Francesco Agnello (il barone mecenate ed appassionato di musica che dal 1973, fino alla morte nel 2010, fu presidente l’Associazione degli Amici della Musica, ndr), cui sono dedicate le recite del Teatro Massimo, che voleva mettere insieme compositori contemporanei e musicisti popolari». Un progetto che vide la luce con l’opera «La sabbia del sonno» (interessante coincidenza di temi, segno di un’ossessione pari a quella di Scianna), con le musiche di Sciarrino, Berio, Bennici ed un giovanissimo Betta, su un testo dello stesso Andò.

«Sette storie per lasciare il mondo» rappresenta la seconda tappa di quell’antico e mai abbandonato progetto. Quella palermitana – ha dichiarato Andò – è «la tappa conclusiva del progetto, ampliato e modificato rispetto alla versione di sette anni fa.»

Al centro dell’opera, di questa nuova drammaturgia diretta verso un «teatro dello sguardo», non può che esserci il linguaggio visivo e la fotografia che rappresenta il grande medium egemonico dello scorso e del nostro secolo.

Un nuovo approccio per ridare slancio alla musica contemporanea, sempre più rilegata in nicchie ristrette ed elitarie, lontana dal carattere estremamente pop del melodramma, soprattutto quello italiano.

Un’opera, anzi com’è definita dai suoi autori, «un’elegia del sonno e della veglia» priva all’apparenza di una trama organica e divisa, come suggerisce il titolo, in sette parti, che richiamano alle vicende di sette persone scomparse nel nulla tra la cronaca (Ettore Maiorana e la bambina dello Zen, Santina Renda) e la fantasia dell’autore. Sette storie per sette film e sette quadri attorno ad uno stesso tema. Il sottile filo rosso delle fotografie del bagherese Scianna che, durante l’opera, prendono, in un certo senso, vita. Una selezione degli ottanta scatti di Scianna, raccolta sotto il titolo «Dormono», è anche oggetto di una mostra allestita proprio all’interno del Teatro.

Musicalmente, un’opera molto complessa ed impegnativa, a partire dalla sofisticata partitura di Betta che mette insieme non solo l’orchestra (diretta da un entusiastico George Pehlivanian) ed il coro del Teatro Massimo, insieme ai solisti (i due soprani Gabriella Costa e Maria Chiara Pavone), ma anche la voce recitante di Donatella Finocchiaro, la tradizione del canto popolare con il coro dei lamentatori “Memento Domini” di Mussomeli  ed i Fratelli Mancuso (vincitori a Venezia del Leone d’Oro per la “miglior colonna sonora” del film “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante), infine, per non farsi mancare nulla, anche voci campionate ed elaborazione del suono in tempo reale.

Dal punto di vista musicale, il suo creatore, l’ennese Marco Betta, la definisce una «sinfonia di suoni e voci con un’ouverture e sette movimenti», in cui ciascun movimento è «una variazone del tema dell’ouverture, non solo tecnica, che accoglie le diverse forme dell’interludio, della musica da film e di quella popolare».

E che ne è delle arie, dei concertati, degli ariosi, tipici della tradizione operistica belcantista da Donizetti a Verdi, passando per il catanese Bellini? Anch’essi saranno presenti – spiega Betta – «come relitti o fossili di quello che per noi è il melodramma, con passaggi vicini a Vincenzo Bellini».

Infine, l’antico progetto di Agnello di far convivere sullo stesso piano la musica contemporanea e quella popolare arcaica che «non è istintiva come si pensa, ma una forma d’arte molto precisa che dialoga perfettamente con la musica contemporanea», rispecchia un’idea di Sicilia «metafora del mondo» e del sonno come suo diagramma e paradigma morale, luogo culturale, psicologico, seppure nella sua dimensione fugace, cui un regista come Andò, cresciuto accanto ad intellettuali del calibro di Sciascia e di un altro celebre bagherese come Guttuso, non poteva restare indifferente.

Gianfranco Scavuzzo

(pubblicato sul Settimanale di Bagheria,  25 Ottobre 2013)