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Dimitri Platanias, il Rigoletto dell’edizione 2013 del Teatro Massimo firmata da Henning Brockhaus (foto: gds.it)

«Oh, Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Triboulet (Rigoletto nell’opera verdiana, ndr) è creazione degna di Shakespeare, altro che Ernani! E’ soggetto che non può mancare!»: così Giuseppe Verdi in una lettera inviata al suo librettista Francesco Maria Piave. Un Verdi entusiasta come poche altre volte nella sua carriera, che intravide nel soggetto tratto dal dramma di Hugo, le caratteristiche del perfetto melodramma. Un soggetto, tuttavia, spinoso, definito da uno dei censori veneziani, committenti dell’opera, di «ributtante moralità ed oscena trivialità», ma che Verdi decise di portare in scena, anche al costo di qualche compromesso sul libretto.

Contro l’opera, rappresentata successivamente a Roma con il titolo di “Viscardello”, i più feroci strali giunsero da Giuseppe Gioacchino Belli, il celebre autore di sonetti licenziosi nonché censore presso lo stato pontificio, il quale, con buona dose di cattolica ipocrisia, così scrisse: «Dal putrido dramma di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”, nel quale vengono in sozza gara di colpe il Re di Francia, Francesco I ed il di lui buffone Troboulet, non potea generarsi che una fetida contraffattura quale è questa sconcezza del Viscardello che ci fu già regalata  e vuol regalarcisi ancora. Strana e lacrimevole epoca di corruzione è pure la nostra!».

Rigoletto, forse più delle altre, fu l’opera verdiana che maggiormente subì i rigori ed i dinieghi della censura: d’altronde mettere in scena un re libertino e avventore di bordelli, era inconcepibile all’epoca, così mettere in bocca ad un servitore la parola “vendetta” contro lo stesso sovrano. Per stemperare l’attualità del soggetto, Francesco I dovette cedere il passo ad un più generico e lontano nel tempo “Duca di Mantova” e l’azione scenica, anch’essa, fu retrodatata al XVI secolo (operazione analoga a quella compiuta dal Manzoni con i suoi Promessi Sposi). E che dire del personaggio di Maddalena? Troppo ardita la presenza in scena di una prostituta, meglio una non meglio precisata “ballerina”, sorella di Sparafucile.

Quello dei personaggi, dei loro nomi e delle loro caratteristiche, rappresentò il problema forse più arduo che i due dovettero affrontare anche dopo il debutto veneziano: a Palermo, per esempio, l’opera venne rappresentata per la prima volta nel 1853, al Real Teatro Carolino (l’odierno Teatro Bellini). In questo primo allestimento palermitano, il Duca non fu di Mantova, bensì di Nancy e nel terzo atto, per evitare al timorato pubblico la vista di un’omicidio, quello di Gilda, la stessa strappò il pugnale dalle mani di Sparafucile, per trafiggersi da sola, così come non pochi problemi incontrò la presenza di un sacco contenente un quasi cadavere.

Anche la gobba del buffone di corte, per i censori veneziani, era da eliminare, insieme alle altre sconcezze: Verdi si trovò costretto ad ingaggiare un vero e proprio duello con impresari e censori, minacciando addirittura il ritiro dell’opera. Ed almeno su questo fronte, la ebbe vinta.

Questo lungo preambolo, e soprattutto questo ultimo passaggio, serve semplicemente a sottolineare quanto la libertà assoluta che oggi viene data ai registi nell’allestimento di un’opera, spesso tende a far emergere più le vanitose aspirazioni di questi ultimi, che la resa fedele del “messaggio” artistico e non solo.

Non è, fortunatamente per noi, il caso di Henning Brockhaus che ha firmato, a 160 anni dalla prima rappresentazione palermitana, un nuovo allestimento di Rigoletto per il Teatro Massimo. Al pluridecorato regista, autore, insieme al compianto scenografo Svoboda, di una Traviata (ribattezzata “degli specchi”) entrata ormai nella storia dell’Opera, si può perdonare anche questo Rigoletto senza gobba ed un allestimento tutto onirico, in cui il Palazzo Ducale di Mantova assume le sembianze di un grande lupanare. Non a caso, il colore dominante è il rosso della lussuria, che si insinua tra le bianche ed innocenti lenzuola della verginale Gilda. Tra nani, ballerine e ballerini en travesti, boa di piume, corpetti sexy, guepiere di pizzo nero, e clown, sembra di stare in un bordello della Chicago anni ’30 o nella decadente e lascivia Berlino di Weimar (quella del celebre musical “Cabaret” e dei Diari berlinesi di Isherwood, insomma), o ancora alla corte del Marchese De Sade, piuttosto che in quella rinascimentale corte dei Gonzaga. E d’altronde, quale miglior omaggio offrire al nostro glorioso compositore nazionale, nell’anno del suo bicentenario, se non restituire all’opera che forse più di tutte amò, lo spirito ed il mordente che stupide censure impedirono fin dalla nascita?

Rigoletto è certamente l’opera politica per eccellenza, molto più che lo strumentalizzato Nabucco: è un’opera – diremmo oggi – di denuncia contro il potere, contro gli abusi che questo potere compie nei confronti dei deboli: un potere, purtroppo – è l’amara confessione -, invincibile, così che la maledizione scagliata da Monterone, non colpisce il Duca stesso, bensì il suo buffone di corte.

Il personaggio di Rigoletto, nella sua drammatica metamorfosi da inconsapevole complice a consapevole vittima di un sistema fondato sulla sopraffazione e sull’ingiustizia, è il personaggio più nobile e più alto, dunque pienamente tragico, tra quelli plasmati dal compositore.

Rigoletto è infine, nella visione di Brockhaus in scena in questi giorni a Palermo, il pagliaccio che piange ridendo (immediato il parallelo con il personaggio di Leoncavallo), Gilda è la fanciulla che scopre la passione amorosa finendone vittima, il Duca di Mantova è il “vitellone”, il “fimminaro”, il “Don Giovanni” che fa incetta di belle donne – ma, suggerisce tra le righe Brockhaus, non solo necessariamente donne! – e che incarna l’idea di sesso così come è stata ereditata sin dai romani: come ben descrive lo storico Paul Veyne, una “sessualità di possesso”, mezzo privilegiato per affermare il dominio carnale e non solo sui propri sudditi, che siano donne o uomini poco importa. Da lì, via via trasformandosi ed assumendo i contorni del medievale “ius primae noctis” o, in tempi più recenti, la morfologia del “bunga bunga” (chissà, magari un registra avanguardista come Michieletto avrebbe il “coraggio” di compiere l’azzardato parallelismo).

Non si può dire, comunque, che Verdi abbia voluto condannare i costumi sessuali e l’infedeltà di questo “iniquo traditor!”: Rigoletto non è affatto un inno alla monogamia, un’apologia della moralità contro la dissoluzione morale di una corte debosciata!

Anzi, la morte, in realtà un determinato suicidio, di Gilda è semmai la prova che l’irriducibilità della stessa Gilda, che rifiuta la vendetta per il cristiano perdono fino al concepimento del sacrificio della sua stessa vita, è – suggerisce Verdi – la vera maledizione che impedisce la realizzazione piena dell’individuo, rendendolo davvero schiavo.

La superstizione ossessiva di Rigoletto ed il senso del peccato (l’onta), la morale cattolica di Gilda, sono i veri carnefici.

Henning Brockhaus, che è formidabile  metteur en scène, aiuta lo spettatore a trovare queste risposte.